Foto: Complesso Museale: Purgatorio ad Arco,(Napoli)
Succedeva così che le donne dei quartieri, sceglievano la loro capuzzella fra mille teschi disseminati tra le catacombe, gli ipogei, le cripte gli ossari comuni (il più nome è il Cimitero delle Fontanelle nella Sanità) gli si attribuiva un nome, una storia e un ruolo specifico; il rituale, molto vivo fra la fine del 1656 (anno della peste) e nel 1836 (anno del colera) è sopravvissuto fino al secondo dopoguerra (proibito negli anni ”60) prevedeva un passaggio ben preciso: la capuzzella adottata, sistemata su un fazzoletto o su un cuscino ricamato, veniva rigorosamente pulita e lucidata a mano, le si asciugava il sudore (segno della fatica che l’anima stava compiendo per giungere in Paradiso) addobbata da fiori freschi e lumini accesi, omaggiato dal rosario allacciato al collo del teschio, per preservarne la sofferenza. Dopo questa procedura si pregava l’anima del morto (in questo caso un perfetto sconosciuto) cioè si rinfrescava la sua anima purgante dandone sollievo, con l’intento di vederlo in sogno, raccomandandosi al defunto per chiedergli grazie e intercessioni. Il sogno rappresentava l’unico mezzo per comunicare con il defunto che si mostrava al fedele, e solo allora, egli avrebbe rivelato il proprio nome. avrebbe raccontato la sua storia e avrebbe agito. Se la capuzzella compiva la grazia, come segno di gratitudine, il fedele costruiva la famosa casetta, una scarabattola di legno che veniva dipinta e diventava la nuova dimora del teschio; caso contrario la grazia non avveniva, la capuzzella veniva girata con il volto al muro, cioè messa in punizione e abbandonata all’ossario. Sono note anche le leggende e le vicende delle capuzzelle dispettose che hanno preso in giro e deriso i loro proprietari. Si diventava così assistito e benefattore del morto, e sono numerose le testimonianze delle grazie ricevute che raccontano il loro rapporto privilegiato con l’aldilà.
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